La patologia benigna esofago-gastrica è rappresentata da un’ampia varietà di entità cliniche che si distinguono tra loro per quel che attiene i sintomi, la patogenesi, il trattamento e la prognosi. Tra le condizioni morbose che possono interessare le prime vie digestive, alcune di esse possono giovare di un approccio medico conservativo, mentre altre hanno un’indicazione prettamente chirurgica e/o endoscopica. Il nostro Centro, in particolare, si propone come riferimento per il trattamento di acalasia, diverticolo di Zenker, ernia jatale e reflusso gastroesofageo.

ACALASIA

L’acalasia è una patologia poco diffusa (circa 10 casi ogni 100.000 individui) e che spesso esordisce in età adulta, tra i 30 e 60 anni.

Essa è causata dalla progressiva degenerazione dei neuroni deputati al controllo del movimento dell’esofago: il risultato è un’incapacità di rilasciamento dei muscoli dello sfintere esofageo inferiore (ossia il “cancello” attraverso cui il cibo passa dall’esofago allo stomaco) spesso associata a una paralisi o una totale incoordinazione della muscolatura della parte terminale dell’esofago. Ne consegue, quindi, il difficoltoso passaggio del cibo attraverso la giunzione esofago-gastrica e con esso tutta la sintomatologia riferita dal paziente. Tuttavia, il primum movens dell’acalasia resta ancora oggi ignoto (ad eccezione di rare forme secondarie dovute a microrganismi tuttavia diffusi solo in Centro e Sud America).

Il quadro clinico della malattia è definito dalla presenza di sintomi per lo più disfagici, inizialmente lievi ma progressivamente ingravescenti: infatti, se nelle prime fasi i disturbi deglutitori possono riguardare esclusivamente cibi più solidi, col passare del tempo coinvolgono anche i liquidi. Non è raro, tuttavia, che si accompagnino anche altri sintomi quali rigurgito, vomito, senso di peso retrosternale ed epigastrico, analogamente a quanto accade per i pazienti affetti da reflusso gastroesofageo.

In questi casi, riteniamo indicato uno studio delle vie digestive superiori con le seguenti indagini:

  1. Esofagogastroduodenoscopia. L’approccio endoscopico spesso rivela tracce di ingesti alimentari nonché un passaggio difficoltoso attraverso la parte terminale dell’esofago;
  2. Manometria esofagea ad alta risoluzione. È considerato l’esame più importante per lo studio del disturbo acalasico: su questo infatti si basa la definizione di diagnosi della malattia ossia “la mancanza di peristalsi (ossia dei movimenti intrinseci dell’organo) riguardante i due terzi inferiori dell’esofago e l’incompleto rilasciamento dello sfintere esofageo inferiore”. Si esegue introducendo un piccolo palloncino all’interno dell’esofago il quale, gonfiandosi contro le pareti dell’esofago, fornisce informazioni circa la resistenza che viene opposta alla dilatazione. Risulta inoltre fondamentale per definire la gravità della condizione.
  3. Radiografia del tubo digerente dopo ingestione di mezzo di contrasto. Riservato a situazioni dubbie dal punto di vista manometrico; è in grado di documentare alterazioni strutturali quali dilatazione dell’esofago (tipica degli stadi più avanzati) con netto ed improvviso assottigliamento della porzione più vicina allo stomaco, mancanza di peristalsi (ovvero dei movimenti intrinseci dell’organo), ritardato scarico del mezzo di contrasto.

La malattia, se non trattata correttamente, nel tempo conduce a una progressiva dilatazione dell’esofago fino al cosiddetto megaesofago: questa condizione, spesso correlata ad angolazioni e tortuosità, può rendere la disfagia tanto grave da impedire ogni forma di deglutizione.

Ad oggi, fortunatamente, le possibilità terapeutiche hanno notevolmente ridotto la comparsa di condizioni così avanzate: tuttavia, quando presenti, richiedono interventi molto più importanti e per questo si ritiene opportuno trattare l’acalasia prima che possa andare incontro a tali complicazioni di fatto irreversibili.

Il trattamento si basa essenzialmente sulla rottura delle fibre muscolari che formano lo sfintere esofageo inferiore. I metodi che vengono attualmente impiegati presso il nostro Reparto, in accordo con le linee guida internazionali e che hanno dimostrato un’efficacia significativamente maggiore, sono:

  • Dilatazioni pneumatiche. Vengono eseguite endoscopicamente attraverso speciali palloncini che, dopo esser rapidamente gonfiati e sgonfiati, permettono di superare la resistenza dello sfintere esofageo inferiore provocandone una rottura parziale delle fibre muscolari. Solitamente sono organizzate in cicli di almeno tre sedute, a distanza di circa una settimana l’una dall’altra;
  • Miotomia chirurgica, eseguita quasi esclusivamente per via laparoscopica, permette l’incisione selettiva delle fibre muscolari dello sfintere esofageo inferiore; spesso, per evitare la possibile comparsa di reflusso gastrico, viene seguita dal confezionamento di una plastica antireflusso con parte dello stomaco (a 180° sec. Dor).

Naturalmente ognuno di questi approcci offre vantaggi e svantaggi: se da un lato la scelta endoscopica è certamente meno invasiva, dall’altro la via chirurgica garantisce risultati più stabili nel tempo: è necessario, quindi, fare un bilancio di questi aspetti nella valutazione globale del paziente.

DIVERTICOLO DI ZENKER

Il diverticolo di Zenker è un’estroflessione sacciforme dell’esofago superiore attraverso il cosiddetto triangolo di Killian, una regione dove la muscolatura è fisiologicamente più esile e perciò più prona allo sviluppo di queste evaginazioni.

Così come l’acalasia, anche i diverticoli di Zenker rappresentano una condizione poco diffusa: circa 2 pazienti ogni 100.000 abitanti ogni anno, con picco d’incidenza tra i 60 e 70 anni.

La base patogenetica dei diverticoli di Zenker è rappresentata da una duplice anomalia motoria dell’esofago: da un lato un aumento eccessivo della pressione durante la deglutizione e dall’altro un aumento della resistenza al passaggio del bolo causata da anomalie dello sfintere esofageo superiore (ovvero il punto di passaggio tra faringe ed esofago).

Il risultato è, sotto l’aspetto sintomatologico, il disturbo disfagico che è presente fin dalle prime fasi della malattia poiché spesso il bolo “imbocca” preferenzialmente la via del diverticolo. All’aumentare delle dimensioni del diverticolo, anche la sintomatologia si può complicare con inalazione di cibo nelle vie aeree, alitosi, rigurgito del cibo fino all’ostruzione esofagea.

Dal punto di vista diagnostico, uno studio radiografico del tubo digerente con mezzo di contrasto è solitamente sufficiente per confermare la presenza del diverticolo di Zenker e ne permette una buona caratterizzazione anche in vista di una futura correzione chirurgica o endoscopica.

Nel primo caso, attraverso un’incisione cervicale, si raggiunge il diverticolo e si procede ad asportazione dello stesso (diverticulectomia): spesso, per ridurre le possibilità che si presentino recidive, si esegue contestualmente anche un’incisione della muscolatura dello sfintere esofageo superiore (o muscolo cricofaringeo).

ERNIA JATALE

L’ernia jatale si definisce come la dislocazione di uno o più elementi addominali nella cavità toracica attraverso lo iato esofageo del diaframma. In condizioni fisiologiche, la parte terminale dell’esofago è ancorata al diaframma da strutture legamentose: durante la deglutizione, quando la contrazione dell’esofago tenderebbe a “richiamare” lo stomaco nel torace, questi legamenti si allungano leggermente e ne ristabiliscono il corretto posizionamento al termine dell’onda deglutitoria.

Molti stimoli stressanti (deglutizioni continue, frequenti episodi di vomito, distensione addominale) possono determinare una degenerazione progressiva di questi legamenti; in particolare, la contrazione continua dell’esofago causata dal reflusso gastrico innesca un circolo vizioso in cui il deterioramento dei legamenti facilita il reflusso gastroesofageo e viceversa.

Le cause alla base dell’ernia jatale restano tuttavia non ancora completamente chiarite anche se, probabilmente, rappresentano il risultato di più elementi patogenetici come malformazioni congenite, traumatismi e fattori iatrogeni.

Tuttavia, l’ernia jatale è una condizione assolutamente frequente: molti studi riportano una prevalenza che sembra raggiungere fino l’80% della popolazione adulta.

Quando le dimensioni sono ridotte, l’ernia jatale è solitamente asintomatica e viene identificata casualmente: peraltro, vista l’elevata mobilità fisiologica della giunzione gastroesofagea, ernie inferiori ai 2 cm non rappresentano entità patologiche certe. Al crescere dell’entità del volume erniato, i sintomi si manifestano con reflusso gastroesofageo, pirosi, senso di ripienezza dopo i pasti, rigurgito e disfagia. Più raramente, proporzionalmente all’aumentare delle dimensioni, l’ernia jatale può complicarsi e portare a situazioni molto più gravi quali volvolo gastrico, sanguinamenti gastrici e disturbi respiratori da compressione polmonare.

In presenza di questi sintomi, qualora si sospettasse la presenza di un’ernia jatale, per la diagnosi è possibile ricorrere a studi endoscopici piuttosto che radiologici: lo studio del tubo digerente con mezzo di contrasto rappresenta il test più adatto per individuare e stimare correttamente le ernie jatali.

Per quando attiene la terapia, in particolare per quanto riguarda le ernie jatali sintomatiche più piccole, il primo approccio è di tipo farmacologico, associato alla modifica di tutte quelle abitudini quotidiane che possano contribuire a rendere i disturbi più gravi.

In alcuni casi selezionati (fallimento della terapia medica, sintomi asmatici gravi, reflusso ad alto volume, ecc) la chirurgia può rappresentare una valida alternativa capace di ridurre o eliminare completamente i sintomi: per via laparoscopica (o più raramente adottando un approccio open) si riporta il contenuto dell’ernia jatale in addome e si confeziona una fundoplicatio, ovvero si avvolge una parte dello stomaco attorno alla porzione terminale dell’esofago come se fosse una sciarpa (a 360° sec. Nissen). Questa nuova conformazione anatomica, oltre a ridurre notevolmente il rischio che lo stomaco riesca a riportarsi in torace, riduce anche i disturbi correlati al reflusso: fino al 90% dei pazienti operati in centri con elevata esperienza riferisce infatti un miglioramento della sintomatologia.